Contractor italiani: chi sono?

Contractor italiani: chi sono?


Vi proponiamo un interessante articolo, tratto da giornalettismo.com, nel quale viene riportata un’approfondita analisi sui professionisti della sicurezza che operano in Italia.

La vita sconosciuta dei contractor italiani

Chi sono e che compiti hanno i professionisti della sicurezza del nostro paese Sono una cinquantina gli italiani impegnati nelle scorte di manager in paesi ad alto rischio come l’Iraq o l’Afghanistan.

Sono una cinquantina gli italiani impegnati nelle scorte di manager in paesi ad alto rischio come l’Iraq o l’Afghanistan. Superaddestrati, in genere hanno nel loro curriculum alcuni anni nelle unita’ d’elite delle forze armate, Folgore, Gis, Tuscania, Col Moschin, Comsubin, San Marco e, lasciata la divisa, continuano a frequentare corsi di aggiornamento e specializzazione. Spesso vengono chiamati ‘contractor’, ma i compiti della maggior parte dei contractor italiani sono differenti da quelli dei professionisti della sicurezza stranieri, ingaggiati dalle grandi ‘private security company’, inglesi o americane, o da societa’ nate negli stessi paesi a rischio. Quasi tutti gli italiani risultano attivi solo in un anello della catena del risk management.

SECURITY – ‘Quando si parla di security nelle aree a rischio – spiega Carlo Biffani, direttore generale della Security Consulting Group di Roma, societa’ che opera nel campo della sicurezza, dell’intelligence e dell’investigazione – in genere si pensa alla protezione ravvicinata, cioe’ alle scorte armate. Allora, chiariamo subito un aspetto. Nessuna societa’ in Italia e’ titolata a operare in aree di crisi con personale armato e con team di protezione propri. Per poter lavorare in quei paesi i pochi che lo fanno, noi compresi, si affidano a partner locali, che agiscono in ottemperanza delle leggi del loro paese’. Security Consulting Group propone anche cicli formativi alle aziende che operano in territori a rischio e agli operatori della sicurezza, alle forze armate e alle forze di polizia, per esempio ha collaborato con la polizia dello Strato di San Paolo, in Brasile. ’Al cliente – dice Biffani – diamo gli strumenti necessari a capire e valutare il rischio, per la security mandiamo un nostro incaricato come supervisore e consulente, la parte operativa viene svolta dalle compagnie locali. Nel nostro data base per questa figura professionale teniamo un centinaio di nomi, di cui una quarantina italiani.’

L’ADVISOR – Allo stesso modo opera la bresciana Dual Risk Management, con Security Consulting Group tra le piu’ affermate societa’ del settore. Drm si occupa della sicurezza economica delle imprese e delle organizzazioni, dei rischi operativi e di mercato, della posizione commerciale e competitiva e delle infrastrutture tlc e it. ’Noi – spiega Antonio De Felice, senior partner di Drm – i nostri professionisti li chiamiamo security advisor, perche’ sia chiaro il loro ruolo. Per gli addetti alle scorte e per gli altri anelli della catena della security, come gli autisti, ci serviamo di societa’ e professionisti del posto’. Quali sono i compiti dell’advisor? ‘Si tratta di impostare e controllare il lavoro di tutti i soggetti coinvolti, e tenere il collegamento con il cliente. L’advisor deve conoscere le tecniche della difesa e della sicurezza, ma anche saper capire la situazione, prevenire le tensioni e i pericoli. Puo’ essere un locale o uno straniero, purche’ conosca il paese. Due terzi dei nostri clienti sono italiani, quindi spesso ci serviamo di advisor che parlino italiano, per facilitare i rapporti con il cliente. Non e’ necessario siano cittadini italiani, ci interessa che parlino la lingua, vanno bene anche maltesi, corsi, stranieri con un genitore italiano’.

LE REGOLE – Il fatto che quasi tutti i contractor italiani siano consulenti e non addetti direttamente alle scorte dipende dalla normativa del nostro paese. Negli Usa, in Gran Bretagna e in molti altri paesi le private security company sono persone giuridiche registrate che forniscono servizi militari o di sicurezza di varia natura. Non prendono parte attiva ai combattimenti, i loro servizi riguardano i trasporti, la vigilanza di edifici e aeroporti e le scorte. Esistono anche le private military company, ingaggiate da governi che vogliono garantire la sicurezza e l’ordine in zone dove sono presenti guerriglieri. Per regolare l’attivita’ di pmc e psc a Montreux nel 2008 per iniziativa congiunta del governo svizzero e del Comitato internazionale della Croce Rossa, 17 governi tra cui quelli di Afghanistan, Francia, Germania, Irak, Svizzera, UK, Usa. hanno prodotto un documento che indica le linee guida sugli obblighi delle societa’ e sui comportamenti del loro personale, su procedure di gara, controlli, garanzie di responsabilita’. Il 9 novembre 2010 sessanta societa’ di sicurezza private si sono incontrate a Ginevra per firmare un codice di sicurezza internazionale – Icoc (international code of conduct for private security service providers) in cui si sono impegnate reciprocamente e verso i terzi a rispettare i diritti umani e il diritto umanitario internazionale.

L’ITALIA – Il codice contiene divieti importanti, per quanto riguarda l’uccisione e la tortura. Finora 210 societa’ di sicurezza hanno firmato l’Icoc. Le psc svolgono o hanno svolto un ruolo cruciale negli sforzi Usa in Afghanistan e in Irak. ‘Nel marzo 2010 – precisa De Felice – secondo fonti della difesa Usa, in Irak erano presenti 95.461 contractor e 95.900 militari, in Afghanistan 112.092 contractor e 79.100 militari’. I crescenti impegni militari degli Usa nel decennio scorso e i tagli apportati ai budget militari un molti paesi dopo la fine della guerra fredda hanno lasciato spazio ai servizi privati. (Segue) 3 – Tra le piu’ conosciute di queste societa’, spesso dei veri colossi, sono Xe (gia’ Blackwater), Dyncorp International, Triple Canopy, Aegis, Hurt, Armor Group. L’Italia non ha firmato il documento di Montreux e tra i firmatari del Codice di condotta non compaiono aziende italiane. I principi normativi del settore da noi sono il testo unico di pubblica sicurezza del 1931 e l’articolo 288 del codice penale. Il primo regolamenta le attivita’ degli istituti di vigilanza privata ai quali e’ concessa la tutela di beni mobili e immobili ma non quella delle persone fisiche. Il secondo vieta e punisce l’arruolamento non autorizzato a servizio di uno Stato estero.

MERCENARI? – Il rischio, quindi, e’ quello di essere perseguiti per reclutatori di mercenari. Peraltro, una sentenza della Corte di Assise di Bari, depositata in cancelleria il 12 ottobre 2010, ha considerato la questione in modo diverso. Secondo l’accusa, gli imputati Giovanni Piero Spinelli e Salvatore Stefio avrebbero reclutato, nel territorio italiano e senza l’approvazione del governo, tre persone ‘affinche’ in territorio irakeno militassero in favore dello straniero, verso un corrispettivo economico’. La Corte ha assolto i due ‘perche’ il fatto non sussiste’. Secondo i giudici, dalle guide line che disciplinavano le condotte dei body guard risulta che la loro azione era limitata all’esigenza di tutela delle persone scortate, senza possibilita’ di ingerirsi in eventuali scontri tra milizie locali e forze militari della coalizione. ‘Tali direttive escludono in radice il requisito della partecipazione diretta alle ostilita’ o comunque alle operazioni militari che costituisce il proprium della figura del mercenario’. La sentenza afferma, inoltre, che ‘i dati di realta’ gia’ da oggi e sempre piu’ in prospettiva futura imporranno di registrare intorno agli scenari bellici in senso lato l’esistenza di una varieta’ di prestatori di servizi accessori diretti a consentire, per quanto possibile, lo svolgersi di una vita civile in condizioni di relativa sicurezza.

I REQUISITI – ‘E’ una sentenza importante e innovativa – commenta De Felice – ma, a parte il fatto che altri giudici possono decidere diversamente, resta il vuoto normativo. E in Italia non vale il principio che cio’ che non e’ vietato e’ lecito, l’incertezza puo’ costare cara. Un’azienda non puo’ permettersi di rischiare di finire in tribunale per poi, eventualmente, essere assolta dopo anni e senza rimborso delle spese legali’. Le societa’ italiane, quindi, possono fornire soltanto advisor, consulenti, supervisori. La preparazione di questi professionisti e’ la stessa dei contractor stranieri. Si tratta in genere di ex militari delle unita’ speciali. ‘Devono pero’ – spiega Biffani – essere preparati a operare in un ambito diverso da quello militare. Il risk manager e’ tenuto ad agire in pieno accordo con le altre funzioni aziendali, le sue decisioni sono discusse con il top management’. I risk manager frequentano corsi di specializzazione e aggiornamento. Oltre a tenersi in forma fisica, studiano telecomunicazioni, geopolitica, lingue, tecniche come l’evacuazione di persone in situazioni di pericolo. ‘Quando non sono in missione – dice Alessio Mascherana, di Roma, 35 anni, sposato con due figli, una bambina di 12 anni e un bimbo di un anno e due mesi – parte del tempo la passo a frequentare corsi, o come insegnante o come allievo. Mascherana, che nel servizio militare e’ stato aviere, partecipa ai corsi di Biffani, come il suo amico e collega Carlo Di Falco, romano, ex ufficiale del Tuscania.

DIFESA PASSIVA – ‘Con Biffani – racconta Macherana – nel ’96 ho iniziato il mio percorso formativo, poi ho continuato training e aggiornamento sia con lui sia con altre strutture italiane ed estere.
Il fatto e’ che l’operatore non solo deve avere un’ottima preparazione nelle materie del comparto armato e dei metodi di combattimento e difesa, ma anche acquisire a pieno tutto cio’ che comprende l’organizzazione del sistema di protezione, procedure come l’analisi dei rischi, l’intelligence , la controsorveglianza. Mascherana e Di Falco, insieme a Massimiliano Sassi, di Parma, e al team leader Pietro Marras, originario del nuorese ma residente a Pisa, ex alpino, erano i quattro ‘esperti in sicurezza’, ingaggiati dalla Cav di Parma, che il 10 – 11 ottobre scorso hanno affrontato con successo i pirati somali a bordo della nave Montecristo dell’armatore livornese D’Alesio. Li hanno affrontati senza armi. Ora sulle navi italiane in zone a rischio possono gia’ operare squadre armate della Marina Militare, e in futuro, se il nuovo governo in questa materia andra’ avanti sulla linea di quello precedente, anche operatori armati di compagnie private potranno essere impiegati a bordo, probabilmente in base al principio per cui a essere difeso e’ un bene materiale, la nave, il principio che vale per gli istituti di vigilanza, a terra. La nuova legge c’e’, mancano i decreti attuativi e le convenzioni con i paesi che si affacciano sui mari interessati. Il gruppo guidato da Marras, in base alle norme vigenti, ha attuato una difesa passiva basata su procedute prestabilite, che ha avuto successo grazie all’abilita’ e alla presenza di spirito degli esperti e dell’equipaggio, e anche grazie a un po’ di fortuna.

L’AZIONE – Il 10 ottobre alle 6.45 ora italiana, alle coordinate geografiche 12° 34.67N 061° 48.86E, a circa 620 miglia a est dalle coste della Somalia, la Montecristo aveva lanciato l’allarme di security per un attacco di pirateria. Era l’inizio di un confronto tra pirati e personale a bordo della nave durato 36 ore, un confronto che e’ stato gara di abilita’ tecnica e guerra dei nervi. A bordo erano in ventitre’, i quattro advisor e altri tre italiani: il comandante Diego Scussat, veneziano, e due ufficiali. Il resto dell’equipaggio era composto da ucraini, russi e indiani. ’Abbiamo avvistato – racconta all’ Adnkronos Mascherana – il barchino con cinque persone armate dirigersi verso di noi, la nave madre era a una decina di miglia, siamo saliti tutti sul ponte a vedere, perche’ non sempre i pirati attaccano subito. Il fatto e’ che la Montecristo batte bandiera italiana e loro sanno benissimo che sulle navi italiane non c’e’ personale armato. Abbiamo fatto evacuare tutto il personale nella cittadella, cioe’ nei locali isolati e blindati, sul ponte siamo rimasti noi quattro del security team, il comandante e due ufficiali’. A 250 metri di distanza i pirati sono riusciti a sparare con gli AK 47 delle raffiche piazzate bene, al massimo due metri sopra le nostre teste, e non e’ facile da un barchino in movimento contro un bersaglio in movimento, poi hanno sparato con il lanciarazzi RPG, al secondo colpo siamo entrati anche noi nella cittadella, poco dopo abbiamo sentito altre esplosioni, due colpi sul ponte di comando che hanno danneggiato le comunicazioni. Le pareti della cittadella erano blindate con piastre saldate secondo le nostre indicazioni.

COME IN UN FILM – I pirati hanno tentato di sfondare le pareti, ma non ci sono riusciti, hanno adoperato dell’esplosivo che per fortuna non ha funzionato. E il materiale ignifugo ha resistito, i locali non hanno preso fuoco. La cittadella viene attrezzata in modo che dall’interno si possa governare la nave e i pirati, che intanto erano diventati 11 con l’arrivo di un altro barchino, cercavano di impadronirsi dei motori, a un certo punto stavano per riprendere i sistemi di comando, ma grazie a un tecnico russo dell’equipaggio glielo abbiamo impedito’. Non ci sono state trattative ne’ minacce. ’I pirati erano impegnati nel loro lavoro, noi nel nostro, non c’era neppure il tempo di avere paura. Anzi, siamo riusciti a dormire, a turno. Per vedere che cosa succedeva sul ponte guardavamo dal fumaiolo, anche se la temperatura. molto alta, tra i 50 e i 70 gradi, si poteva sopportare solo per poco. Ogni uomo dell’equipaggio si e’ mantenuto calmo e ha collaborato molto bene, i tecnici hanno risolto tutti i problemi elettrici e meccanici e noi abbiamo diretto la nave non verso la Somalia, come avrebbero voluto i pirati, ma sulla rotta opposta, verso l’Oman. Non potevamo comunicare perche’ gli assalitori avevamo distrutto gli apparecchi’. Il messaggio di allarme security intanto era stato raccolto dal contrammiraglio Gualtiero Mattesi, che a bordo del cacciatorpediniere Andrea Doria, comandava cinque navi Nato impegnate nella missione anti pirateria ‘Scudo dell’Oceano’. Dalla Andrea Doria e’ partito l’ordine alle due unita’ piu’ vicine di intercettare la Montecristo. La fregata Usa De Wert, piu’ veloce, e’ arrivata la mattina dell’11. I marinai americani, pero’, non sapevano se i pirati avevano preso ostaggi, oppure no. ‘Abbiamo lanciato in mare – continua Mascherana – la classica bottiglia, era di plastica, con tutte le informazioni necessarie. Poi abbiamo issato a poppa anche uno striscione dove erano riportate le stesse informazioni’. Sulla base di questi dati, nel primo pomeriggio sono intervenute squadre di Sbs, i corpi speciali della marina britannica, giunte con la Fort Victoria , con squadre di Sbs, i corpi speciali della marina. Non e’ stato necessario combattere, i pirati, circondati da motoscafi e tenuti sotto tiro dall’alto con un elicottero, si sono arresi. (Ora sono in carcere, in Italia). E dopo circa 36 ore gli assediati sono usciti dalla cittadella’.

LE SCORTE – Non tutti gli italiani operano come advisor. Alcuni, una decina, prendono parte personalmente alla difesa delle persone scortate. Lavorano alle dipendenze dirette delle grandi compagnie americane e inglesi. In genere vengono ingaggiati con contratti annuali rinnovabili. Come gli advisor, guadagnano in media sui 300 dollari al giorno. E, naturalmente, possono vantare una eccellente formazione militare e post militare. Paolo Simeone, genovese, 40 anni, con una figlia di nove, lavora per le grandi psc americane e inglesi. Ha prestato servizio nel San Marco e poi nella Legione straniera. Somalia, Angola, Balcani, Afghanistan, Iraq i paesi in cui ha lavorato. E’ stato ferito tre volte, nel fegato ha un frammento di proiettile, non estraibile ma non pericoloso. I contractor – precisa – nelle zone in cui operano gli Usa, per la maggior parte forniscono servizi accessori, soprattutto logistica, trasporti. Per quanto riguarda la sicurezza, molti vengono impiegati nella sicurezza statica, cioe’ nella guardia di edifici, strutture. In questi compiti sono impiegati molti gurka, peshmerga, e locali. A occuparsi delle scorte in Afghanistan saranno 4.000 persone, in Iraq 7 – 8.000. Sono soprattutto inglesi, americani, sudafricani. Noi italiani siamo meno di una decina. I contratti sono annuali rinnovabili, il guadagno e’ sui 300 dollari al giorno. Per quanto riguarda le armi valgono le leggi del posto, in Afghanistan si possono portare armi fino alla mitragliatrice, in Irak si arriva al fucile, in Angola sono permesse solo le pistole’.  Ma di rado si arriva allo scontro a fuoco. ‘Il nostro obiettivo -spiega- e’ garantire l’incolumita’ della persona scortata, quindi la regola e’ non ingaggiare battaglia ma fuggire, nel 99,9% dei casi non si combatte, l’uso delle armi e’ l’ultima carta da giocare. E la capacita’ di usarle non e’ certo l’unico requisito necessario per fare questo lavoro. Le compagnie per impiegare un contractor richiedono un curriculum adeguato, fedina penale pulita, foglio matricolare, traduzione in inglese dei documenti certificata da un organo ufficiale, test fisici, inglese perfetto’. ’Io – sottolinea- parlo inglese, francese, portoghese e sto studiando l’arabo. Sono importanti anche cognizioni di primo soccorso medico, cartografia, uso del gps e altre che si acquisiscono con i corsi di perfezionamento. Ma direi che uno dei requisiti fondamentali tra quelli richiesti e’ l’equilibrio del carattere. Affidandoci un incarico la compagnia non intende mettere a rischio un contratto milionario. I colpi di testa non sono ammessi. Anche nei confronti della popolazione locale bisogna comportarsi con il massimo equilibrio, l’azienda che ingaggia il contractor non vuole essere percepita come una minaccia per il paese in cui opera ma come una risorsa’. (Adnkronos)

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